Il museo degli orrori del franchising (ovvero: tutto ciò che non dovrebbe accadere e che invece accade nel franchising “all’italiana”)
Entry fee elevate in cambio di “empty box”
Negli USA, prima che, negli anni ’50, venisse introdotta una (severa) normativa, statale e federale, in tema di franchising, erano frequenti le truffe a danno degli affiliati; in particolare erano frequenti i casi di c.d. “empty box”, cioè i casi in cui il franchisor riscuoteva una entry fee anche elevata, senza poi dare all’affiliato nient’altro che, appunto, una “scatola vuota”. Queste situazioni sono state poi in gran parte risolte con regole molto severe per i franchisors.
Il “museo degli orrori” del franchising
In Italia, nonostante la legge n. 129/2004 sul franchising, sono invece ancora frequenti i casi di franchising che non funzionano, e che danneggiano, in vario modo, gli affiliati. In oltre 20 anni di esperienza maturata sul campo, e dopo avere ascoltato i racconti di centinaia di affiliati, ho sviluppato una mia personale casistica, una sorta di “museo degli orrori” del franchising. Eccone una sintesi.
- Business plan “di fantasia”. Frequentissimi i casi in cui agli affiliati vengono prospettati, prima della firma del contratto, business plan (cioè previsioni di redditività) più o meno erronei, falsi, ingannevoli etc. Purtroppo, quasi sempre l’affiliato non controlla il business plan (tramite un commercialista, un legale, o anche solo consultando altri affiliati della rete), si fida, e poi scopre che i dati prospettati sono del tutto arbitrari e non corrispondenti alla realtà (ovviamente in senso negativo per l’affiliato). E così scopre – purtroppo tardi – che il fatturato era stato indicato in modo assolutamente eccessivo, o che non erano stati indicati una serie di costi. “Avvocato, mi sono fidato, mi sembrava una brava persona, oltretutto era pubblicizzata su XXX ..”, sono le frasi ricorrenti. Mai come nel franchising vale il vecchio detto “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio”.
- Il know how, questo sconosciuto. Il know-how (cioè il patrimonio di informazioni, conoscenze, tecniche, esperienze etc. che dovrebbe essere ben individuato e segreto, in modo da dare un effettivo vantaggio competitivo all’affiliato) dovrebbe essere il vero e proprio “cuore” del franchising. Ma spesso così non è. L’affiliato si ritrova così ad avere pagato magari una entry fee consistente, o royalties elevate, per poi ricevere un manuale operativo del tutto generico e contenente informazioni tranquillamente scaricabili da internet, una formazione evanescente etc. E’ vero che il know-how – a differenza del business plan – è difficilmente controllabile prima di firmare il contratto, perché (giustamente) il franchisor protegge le proprie informazioni riservate; ma è anche vero che il potenziale affiliato (o magari un consulente esperto in franchising) potrebbe acquisire informazioni sufficienti a “fiutare” la serietà del franchisor. Ma anche qui, spesso e volentieri l’affiliato non controlla nulla, fidandosi del franchisor. E poi accade il patatrac.
- Inadempienze “a raffica”. Frequenti anche i casi in cui il franchisor si rende inadempiente ai propri obblighi contrattuali (ad esempio inerenti alla formazione, la consegna della merce, l’assistenza tecnica/commerciale, l’esclusiva, la pubblicità etc.), veri o presunti tali. Sì perché non molti affiliati considerano il fatto che se un determinato obbligo a carico del franchisor non è previsto espressamente nel contratto (che deve essere consegnato all’aspirante affiliato almeno 30 gg. prima della firma) non esiste! Anche qui il potenziale affiliato potrebbe fare, personalmente o tramite esperti, tutta una serie di indagini ed acquisire informazioni circa la serietà del franchisor, ma questo raramente (anzi quasi mai) viene fatto.
- Clausole “vessatorie”. Vi è poi il capitolo delle clausole c.d. “vessatorie” per l’affiliato, che richiederebbe una trattazione a parte. Anzitutto, sgombriamo il campo da un equivoco (nel quale cascano molti affiliati): non si può parlare tecnicamente di clausole vessatorie, perché l’affiliato (e neppure l’aspirante affiliato) non è considerato giuridicamente come un consumatore, e quindi non è tutelato dal Codice del consumo. Il franchising è, infatti, un contratto tra imprenditori: i quali sono liberi di firmare i patti che desiderano (anche se questa libertà, per l’affiliato, è abbastanza teorica). Questo (purtroppo) non è spesso ben chiaro all’affiliato. E così sono frequenti (e tendenzialmente legittime) una serie di clausole molto onerose per l’affiliato o comunque sbilanciate in favore del franchisor: ad esempio, riguardo al patto di non concorrenza, alle clausole penali, alle royalties, alla cessione del contratto o dell’azienda, all’impossibilità di recedere, etc. Clausole che andrebbero molto ben analizzate (tramite un legale esperto) prima di firmare il contratto, e, ove possibile, negoziate con il franchisor. Ciò, purtroppo, non viene mai fatto, e così l’affiliato si ritrova un contratto magari pesantissimo, che lo fa sprofondare in situazioni spesso gravissime.
Ovviamente (per fortuna) non tutte le catene in franchising figurano nel “museo degli orrori”; ve ne sono molte serie, che non danno problemi agli affiliati ed anzi nelle quali l’affiliato svolge la propria attività in modo redditizio. Ma purtroppo vi sono anche quelle non serie. E’ quindi di cruciale importanza per il potenziale affiliato verificare molto attentamente quanto gli viene proposto dal franchisor, prima di firmare il contratto. Possibilmente, con l’aiuto di un consulente esperto.
Avv. Valerio Pandolfini
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